Da grande appassionato di calcio e tifoso malato grave di Genoa, vivo il derby come una sorta di camminata verso il patibolo, come il “Miglio verde” prima della mannaia. La sofferenza che precede la partita è talmente grande che di solito, anche se poi finisce bene (o non male) la soddisfazione non lenisce del tutto la sofferenza pre partita. Se invece finisce male, è la catastrofe. L’umore, l’attesa delle “bordate” di amici e colleghi doriani, che per altro, grazie ad Internet, hanno trasformato il “bar sport” di pochi e conosciuti “serpenti velenosi” da evitare come il freddo allo stomaco dopo una mangiata di castagne, in una sorta di gigantesco chiacchiericcio che dopo un derby perso ti può lasciare annientato.
Questo pensavo (e dicevo ai miei “amici di stadio”) sabato sera alle 19.50, ora in cui mi apprestavo ad entrare al Ferraris.
Poi ho visto una partita da stropicciarsi gli occhi. Il derby sulla carta più equilibrato, con le squadre a pochissima distanza in classifica, con la maggior incertezza di sempre su chi si potesse definire favorito, è stato forse l’unico della storia della stracittadina letteralmente stradominato da una squadra sola. Che per fortuna è la mia.
Sabato sera, fino a notte fonda, mi sono guardato e riguardato ogni trasmissione sportiva che, come un mantra tonificante, ripeteva aggettivi come “affettati, disintegrati, annichiliti, annientati, stracciati, sopraffatti, infilati, castigati” e sostantivi come “impotenza, inesperienza, debacle, disastro, waterloo, la serata più nera, delusione”… [ad libitum].
Ecco, per la prima volta nella mia storia di tifoso e nella mia storia dei derby, la sofferenza pre partita è stata *stra*abbondantemente ripagata da questa litania di spernacchiamenti al nemico disfatto in ritirata.
Che manco ho dovuto mandare una mail o un sms. Quelli che, sventura loro, tifano l’altra squadra di Genova, sono svaniti come un fiocco di neve dentro il forno.