La vicenda di Pomigliano è un bel dilemma. Ci sono pezzi di ragione e pezzi di torto da entrambe le parti. Da un lato ci sono dei numeri abbastanza impietosi sulla produttività e confronti piuttosto imbarazzanti con altri stabilimenti, sia italiani che esteri. Io non conosco nel dettaglio i numeri, ma ho letto di scioperi a ripetizione in giorni “strategici” e di un ricorso alla malattia oltre ogni media.
L’altro capo della medaglia però è che non si può passare da avere dei diritti e magari abusarne un po’ a non avere più alcun diritto, tanto meno se questa spinta eccentrica deriva dal ricatto: o accettate questo capestro oppure le macchine le facciamo nella meno sindacalizzata Polonia, dove per di più la mano d’opera costa la metà.
In questo frangente mi trovo perfettamente d’accordo con Bersani. Si può e si deve miglirare la produttività, anche magari con misure drastiche, tipo ad esempio farsi garantire dagli istituti preposti visite fiscali a raffica per chi si da malato e sottoporre gli scioperi a referendum preventivi e magari dare la possibilità all’azienda, in qualche momento di stringente necessità produttiva, di richiederne la posticipazione o la soppressione.
L’accordo che ho letto, con obbligo di straordinario, con la facoltà di imporre la rinuncia alla mensa o ritorsioni in caso di azioni sindacali, è un ritorno al passato di 100 anni sul tema dei diritti. Per altro, dal momento che si rompe “l’imene” sui diritti, sull’altare degli investimenti e sul ricatto occupazionale, nessuno garantisce (anzi) che questo non sia solo l’inizio di un nuovo corso in tema di diritti sul lavoro (tema sul quale negli ultimi 20 anni abbiamo assistito a scempi di ogni genere).
Infine: alta produttività e diritti non sono termini mutualmente esclusivi. In Germania i lavoratori hanno un robusto sistema di diritti e un welfare poderoso alle proprie spalle e, per esserci stato, mediamente non lavorano più di noi. Sono solo molto molto disciplinati e responsabili (mentre noi siamo più anarcoidi e pressapochisti) e soprattutto c’e’ un etica diffusa tale per cui se un lavoratore tedesco che ha un amico medico va da lui e gli chiede una firmetta su un referto per farsi una settimana di riposo, questo perde istantaneamente un amico. Per il nostro livello di etica media sarebbe come se uno di noi andasse da un amico e gli proponesse, per arrotondare, di andare a scippare le vecchiette fuori dagli uffici postali.
Inoltre, lo sviluppo e il tenore di vita medi sono talmente elevati che se una fabbrica proponesse un contratto come quello di Pomigliano gli operai si licenzierebbero in massa ben sapendo che un altro impiego, con una qualunque qualifica da operaio specializzato, lo trovano in un battibaleno e che, se non lo trovano, lo Stato provvede con un sussidio di disoccupazione che consente di vivere una esistenza decorosa per ben più di qualche settimana.
Noi abbiamo sostenuto per decenni un modello assistenziale per cui, per convincere i grandi gruppi industriali ad andare ad investire al Sud, si è concessa deregulation e chiusi 100 occhi su tante cose (basti vedere i dati sulla diossina dell’Ilva di Taranto), nonchè fiumi e fiumi di denaro pubblico. Oggi che denaro pubblico non ce n’e’, le aziende del nord che hanno investito nel mezziogiorno, levano la gamba. Termini Imerese verrà chiusa e Pomigliano verrà mantenuta ma solo a condizioni di lavoro come quelle dell’Est Europeo, visto che a mantenere le fabbriche nel Sud Italia non hanno alcun vantaggio che non sia quello che potrebbero avere in Polonia o Romania: pochi diritti e mano d’opera a basso costo.
D’altra parte lustri e lustri di politiche clientelari, di voto clientelare e di “amici degli amici” che ti sistemano il figlio, anzichè una sana politica di sviluppo basata su infrastrutture, istruzione, meritocrazia e legalità, prima o poi presentano il conto. Ecco, noi oggi siamo al conto.