Non voglio certo paragonare il PDL al partito nazista tedesco, lo premetto per evitare forzature interpretative, però diciamo che il redde rationem che si consuma fra le due anime del partito, quella di provenienza forzista e quella di provenienza aennina, ricorda molto (se pur questa volta i coltelli sono solo metaforici) la resa dei conti fra i subalterni del Führer. Fra le troppo potenti e infulenti SA e il capo indiscusso che non tollerava alcuna corrente di seppur minimo dissenso o disaccordo con la sua linea e la sua leadership.
Due anni fa, subito dopo la nascita del Partito Democratico, affidato alla guida di Walter Veltroni, Berlusconi la definì una fusione fredda fra due movimenti politici con radici e tradizioni profondamente differenti. Non aveva del tutto torto, ma come spesso succede, nell’acqua che non vuoi bere ci muori annegato.
In quello stesso periodo, dopo la caduta del governo Prodi per mano dell’attuale eurodeputato pidiellino Mastella (perchè la gratitudine a volte è ancora di questo mondo), lo stesso Veltroni provò la mossa della disperazione ma anche dell’innovazione. Il PD va alle urne da solo, basta accozzaglie di partiti e partitini.
Berlusconi fu letteralmente spiazzato da questa mossa. Gli venivano tolti di colpo due dei suoi cavalli di battaglia preferiti da usare durante la campagna elettorale: “i comunisti” e “il teatrino della politica”. Verltroni fece una mossa audace (e incosciente) che costrinse Berlusconi a reagire. Lui aveva già annunciato, col celebre discorso del predellino, che l’alleanza elettorale sarebbe diventato un partito unico. I suoi alleati la presero malissimo, subodorando il fatto che Berlusconi voleva fagocitare de facto AN e UDC dentro Forza Italia, creando un partito mastodontico e sempre incentrato sulla sua leadership indiscutbile, in totale assenza di democrazia interna e dibattito congressuale. Per capire bene di che parlo suggerisco di leggersi cosa<a href=”http://www.radicalparty.org/ca/node/5070902″> scrisse Alfredo Biondi</a> (che all’epoca era uno dei maggiorenti di FI) sul primo congresso di Assago.
Fini la prese così male che ci fu una rottura clamorosa, con tanto di editoriali al vetriolo del Secolo d’Italia, compresa una vignetta in cui Berlusconi veniva raffigurato nelle vesti di cagnolino scodinzolante di Bush (un rigurgito dell’anima antiatlantica dei nostalgici del MSI). Alle accuse di Berlusconi di fare “il teatrino della politica” Gianfranco Fini rispose con l’ormai celeberrimo “se io faccio il teatrino lui è alle comiche finali”.
All’atto delle elezioni però, trovandosi spiazzato dall’azzardo veltroniano, Berlusconi tentò di ricomporre le fila. E mentre Casini volle mantenere il proprio feudo a qualunque costo (nonostante le trattative sotterranee fra Letta e Ruini, visto che alla CEI premeva che la principale forza cattolica italiana fosse parte organica del nuovo partito di maggioranza), Fini cedette alle lusinghe, probabilmente pianificando la sua futura ascesa al Soglio del PDL quando l’attuale monarca fosse passato a miglior vita o si fosse definitivamente ritirato dalla politica. Una pia illusione.
Una delle caratteristiche fondamentali di quasi tutti i sovrani assoluti è quella di identificare se stessi col “popolo”, con “la nazione”, con “il partito” e di considerare questa incarnazione imperitura, al punto da non prendere nemmeno in considerazione di avere un successore. Anzi, Berlusconi, per non indebolire la propria leadership e per evitare di avere una fastidiosa corrente del “subentrante” a dettargli l’agenda (peggio quindi che avere a che fare con AN che alla fine è un soggetto terzo e con cui ci si può confrontare apertamente, a differenza di una sanguinosa lotta intestina) ha fatto di tutto per indebolire il suo rivale. Prima lo ha anestetizzato (o tentato di farlo) con un ruolo istituzionale che per tradizione è “fuori dall’agone politico”. E in secondo luogo facendo partire un attacco violentissimo e senza soluzione di continuità da parte dei suoi camerieri della carta stampata, con Feltri nel ruolo di capo manganellatore.
A questo punto, come sempre, i nodi vengono al pettine. Anche se nel caso di Berlusconi parlare di pettine può sembrare una satira da Bagalino.
Fini naturalmente non ha la minima intenzione di essere parte di un disegno in cui dovrebbe diventare uno dei tanti yesmen di corte, di diventare un Bondi o un Cicchitto qualunque. In più succede anche che mentre AN è un partito ultradecennale, figlio legittimo del MSI a sua volta figlio illeggittimo della RSI (e quindi del Parttio Fascista), con quindi tutti i riti, le strutture, la democrazia interna, la partecipazione popolare, il radicamento nel terriotrio di un partito politico classico, Forza Italia era ed è solo una aggregazione di cortigiani, dove la carriera la decide il capo e non i meriti costruiti sul campo, dove i Pisanu e gli Urbani passano da ministro a zero per aver minimamente contradetto o essere entrati in confluitto col capo, mentre delle sconosciute belle signore assurgono ad un qualche dicastero per non meglio precisati meriti di compiacenza verso il capo, dei quali c’e’ più di un chiacchiericcio riguardo all’evenienza che siano un po’ poco commendevoli (basti pensare al geniale neologismo del fuoriuscito Guzzanti “mignottocrazia”).
Il PD ha fatto un percorso molto più faticoso, un tragitto in cui due grandi partiti si sono fusi in uno solo, con perdite più o meno dolorose e una abbastanza comrpensibile emoraggia di voti.
A questo ha contribuito anche Berlusconi il quale, se fosse un uomo autenticamente liberale, come ad ogni pie’ sospinto dice di se, avrebbe accolto la nascita del PD e il fair play di Veltroni il giorno dopo la sconfitta (telefonata di rito, congratulazioni e auguri di buon lavoro) con lo spirito di un capo di Stato che, avendo a cuore le sorti della propria nazione, consolida il bipolarismo, la presnza di un partito progressista moderato, di un suo segretario di certo non votato alla rissa e allo scontro a prescindere. Dal momento che invece l’uomo ha in mente solo il proprio interesse e il proprio potere, ha reagito al disgelo iniziato dal PD coi soliti cazzottoni sul grugno, compresa una campagna elettorale alle amministrative e in sardegna in cui ha tirato giù il carico da novanta, in modo da trasformare la propria vittoria in un trionfo e da costringere Veltroni alla resa e il PD in ritirata.
Mi vengono in mente le parole profetiche di Di Pietro (che proprio per questo in quel periodo rischiò seriamente di compromettere l’alleanza col PD) che disse “attenti a tendere la mano al Caimano, che quello ve la mozza”. I fatti hanno ampiamente dimostrato che ci aveva visto giusto.
Adesso bisogna che i suoi alleati si sveglino e inizino a staccargli la spina, prima che questa emoraggia democratica diventi un salasso. Ma so bene che è poco più di una pia illusione.