In uno dei suoi massimi capolavori Faber canta la sua Genova violentata dall’acqua, che diventa l’arbitrario e violento ostacolo fra un amante non corrisposto e la sua “moglie di Anselmo” che muore annegata.
La gente muore “passano le bare” e fa la fine dei topi “si fa tana dove non c’e’ la luna”. E’ acqua che “sale dalle scale e sale senza sale” cioè non è una alta marea di acqua salata, ma è acqua “dolce”, appunto, e “nera” che non ha altro da “stramua” cioè da sollevare (gli stramui sono quelli che durante le processioni spostano i giganteschi crocefissi delle confraternite da un portatore ‘purtou’ all’altro[1]) perché tutto è distrutto.
Quando un poeta della statura e della profondità di Faber parla di qualcosa, come dell’alluvione, poi viene difficile scrivere qualcosa d’altro. Dolcenera è una sintesi spettacolosa di tutto quello che ti passa per la testa mentre la tua città (la moglie di Anselmo) affoga, dentro il suo “tram scollegato”, e tu sogni invece di essere sotto le lenzuola che si gonfiano assieme a lei.
C’e’ una cosa però che mi piace dire e sulla quale Faber ha sorvolato (“la vita che si prende per mano a battaglia finita”) che è la solidarietà e la forza, magari disperata, della gente che toglie il fango e rimuove i detriti, sempre a testa alta e con la solidarietà di tutti, di quelli che regalano la focaccia o il cappuccino o l’acqua a chi sfanga la via. Avrei decine di anedoti, dai controllori che non guardano i biglietti, al ristorante che mette fuori i pasti per i volontari, senza pubblicità o senza voler niente in cambio, ma per puro ed elementare civismo.
Quando sento e leggo che Genova è stata messa in ginocchio dall’alluvione ho come un sussulto, e mi viene da rispondere “eh no”. Magari ci ha dato un cazzottone in faccia e ci ha fatto pure ben male. Ma in ginocchio no, col cazzo.
Venga a vedere, dolcenera e senza cuore, i ragazzi che spalano il fango. I negozianti che rialzano le saracinesche, i genovesi che combattono a viso aperto e con la dignità di chi vive in una terra che non ti regala un chiodo, dove la poca terra che coltivi la devi mettere in equilibrio come uno stambecco fra le montagne e i torrenti, pregando il Cielo che la prossima alluvione non te la faccia franare a valle, con tutta la fatica e il sudore dei tuoi vecchi che hanno creato le fasce, pietra su pietra, ulivo dopo ulivo.
E il Cielo conservi questa spettacolare gioventù genovese, questi cuori di leone che senza che nessuno abbia chiesto niente, sono di nuovo scesi in piazza a dare una mano, alla faccia di chi nega loro un futuro. Capisco da queste cose i canti malinconici dei tanti migranti genovesi, a cercar fortuna in Sudamerica, che tant’e’ la loro “cheullia” o la loro “baccanetta” la voglion rivedere, prima di morire.
[1] C’e’ un proverbio genovese che dice (più o meno) “o ciù abelinou che agge visto o le in cacciou de viscio o in stramuo de cristo” ovvero: i due più “sciocchi” che conosca sono i cacciatori col vischio e gli “stramui” dei cristi (la c è minuscola perché in genovese si intendono proprio i pesantissimi crocefissi delle confraternite) proprio perché è gente che fa grandissima fatica in cambio di pochissima soddisfazione. Nelle processioni religiose gli spettacoli e gli applausi se li prendono i portatori, eppure garantisco per esperienza personale che “stramuare” un cristo da 130-140 kg è una delle fatiche più sovrumane che uomo ricordi.