Caro direttore, qualche tempo prima di una importante decisione della Corte costituzionale sulla legittimità del cosiddetto Lodo Alfano un giudice della Corte (cioè uno dei componenti del collegio giudicante) organizza una festosa cena cui partecipano, tra gli altri, il presidente del Consiglio (alle cui prerogative la legge si riferisce), il ministro della Giustizia (che al “lodo” ha dato finanche il nome) e un altro giudice costituzionale. La notizia viene pubblicata da un settimanale e occupa per un giorno le pagine dei quotidiani. Poi cala il silenzio, essendo tutti appagati dalla spiegazione dell’ alto giudice secondo cui i suoi compagni di tavola sono, appunto, affar suo… Negli stessi giorni, l’ intervista a un quotidiano di una giovane e vistosa fanciulla rende pubblica la notizia di una indagine, pendente presso la procura di Bari, nella quale si tratta, tra l’ altro, di feste e festini organizzati da un intraprendente imprenditore pugliese e svoltisi anche in residenze del presidente del Consiglio. Nei giorni successivi inizia su alcuni quotidiani una vera e propria “campagna” tesa a delegittimare uno dei pubblici ministeri preposti all’ indagine, reo di aderire a Magistratura democratica e di essere, dunque, una “toga rossa”. Si affaccia una nuova concezione secondo cui il requisito fondamentale del giudice non è più l’ imparzialità , cioè il disinteresse personale, l’ estraneità agli interessi in conflitto, il distacco dalle parti, la lontananza dai luoghi del potere. Il nuovo che avanza dice, invece, che a nuocere al giudice è la partecipazione al dibattito culturale, l’ espressione delle proprie convinzioni, magari la sottoscrizione di un appello relativo ad un provvedimento legislativo. E ciò benché nessun magistrato possa essere indifferente alle idee e ai valori e la pubblicità sia da sempre fattore di trasparenza e di democrazia; e benché il buon magistrato non persegua né giudichi idee ma solo persone chiamate a rispondere di fatti specifici (indipendentemente dalle idee, dalle caratteristiche personali, dalle convinzioni, dal colore della pelle del destinatario del giudizio). Per molti autorevoli commentatori non è così e il “riserbo” richiesto al giudice riguarda solo le idee (o, meglio, certe idee) e non anche le frequentazioni e i rapporti con le parti interessate alla decisione. E si rimpiange il bel tempo antico in cui il “giusto” coincideva con il “politicamente utile” e la magistratura era una articolazione della classe politica tout court, al punto che nei primi quarant’ anni dello Stato unitario metà dei ministri della Giustizia (17 su 34) e dei relativi sottosegretari (11 su 21) proveniva dai ranghi dell’ ordine giudiziario. Strano Paese, il nostro, in cui questi non disinteressati luoghi comuni stanno diventando pensiero diffuso. Sarebbe meglio accorgersene prima che sia troppo tardi. L’ autore è membro del Consiglio superiore della magistratura – LIVIO PEPINO
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