Quando iniziò la nostra avventura coloniale in Libia, Giolitti chiese quanti uomini sarebbero serviti per invaderla e gli venne risposto “100 mila”. Lui rispose, in dialetto,”facciamo duecento che stiamo tranquilli”. In effetti la conquista delle città fu facile, più ancora del previsto, ma i guai arrivarono dopo. Come spesso succede in posti del genere, territori ostili e ben padroneggiati dai nativi, forte identità tribale e grandi differenze culturali, ci fu uno stato costante di ribellione, che venne in parte soffocata solo molti anni dopo da Graziani, con l’uso di una violenza cieca e disumana. La prima parte della nostra farsesca avventura coloniale fu balneare, nel senso che tenemmo militarmente alcune città importanti sulla costa, ma la grande pancia della Libia nel deserto (anche se i confini ancora non erano certi, gli attuali verso Ciad e Niger vennero stabiliti solo nel 1935 con un accordo italo-francese) era sostanzialmente fuori controllo.
Ora ci stiamo per riavventurare in terra libica, con gli Stati Uniti che in un anno di presidenziali, con Obama che ha fatto del disimpegno militare una filosofia distintiva, certo non manderanno soldati. Così come non li manderanno i russi ne i cinesi, ovvero le tre superpotenze che dispongono di una fanteria moderna, attrezzata e numericamente idonea a sostenere un processo di peace enforcing (che di fatto è una guerra di occupazione anche se non di tipo coloniale) in un territorio così vasto e così poco ospitale (la Libia detiene ancora oggi il record della temperatura al suolo più calda mai registrata).
Mi domando quindi come l’Italia, che si candida a guida di quetsa coalizione di pacificazione, proprio in virtù del suo passato coloniale, possa trovare gli uomini da mandare da quelle parti, anche ipotizzando di non dover sostenere da sola i costi, vista la più che scontata egida dell’ONU (sempre ammesso che russi e cinesi, per questioni di geopolitica, non decidano di attuare una politica di sfiancamento e veti al Consiglio di Sicurezza).
Insomma, niente di buono all’orizzonte, il rischio di infilarci in un grande casino, di portarci in casa terroristi (una certa porzione del territorio libico oggi è controllata dall’ISIS, anche se si è rivelata meno penetrabile di altre regioni arabe, proprio per la sua radicata tradizione tribale) e di vedere tanti nostri ragazzi tornare a casa in una cassa di legno, è grande e concreto.
Spero di essere cattivo profeta.