Deflazione
Deflazione: “un termine che fa rabbrividire” lo definisce il New York Times. Se gli americani eleggeranno un nero alla Casa Bianca, un peso determinante lo avrà questa crisi gravissima e rara, un tipo di morbo economico che l’Occidente ha conosciuto una sola volta in un secolo. E se Obama vince dovrà cimentarsi con una sfida che un solo presidente ha affrontato prima di lui, Franklin Delano Roosevelt. La deflazione è molto più di una semplice recessione, non si esaurisce affatto in un arretramento della crescita economica. Le recessioni sono relativamente frequenti (l’ultima in America avvenne nel 2001), sono un male curabile e ben noto alle autorità di politica economica. La deflazione invece è un fenomeno difficile da capire finché non ci si è in mezzo: e allora è troppo tardi. Gli anni Trenta sono l’unico caso precedente di una deflazione globale nell’èra moderna. Quel circolo vizioso oggi viene definito come “un rischio reale” da Nouriel Roubini, l’economista della New York University che seppe prevedere con precisione il grande crac dei mutui e le sue conseguenze
La deflazione non è soltanto dis-inflazione, cioè il contrario del rincaro del costo della vita. Una disinflazione è ben vista dai consumatori perché aumenta il loro potere d’acquisto (anche se il consumatore italiano spesso è l’ultimo a beneficiarne perché monopoli, intermediari e corporazioni parassitarie sequestrano il vantaggio). La deflazione invece è distruttiva. Se stentiamo a capirne la portata reale, è proprio perché abbiamo tendenza a concentrare l’attenzione sui prezzi al consumo, le vendite al dettaglio, le etichette del supermercato, le bollette della luce e del telefono, il costo di un’automobile o di un computer. Ma ci sono altri prezzi che sono ancora più influenti per determinare lo stato di salute dell’economia. Noi consumiamo solo una piccola parte della nostra ricchezza. La spesa annua che dedichiamo ai consumi è una frazione del nostro patrimonio: quest’ultimo include la nostra casa, la liquidità depositata in banca, i risparmi investiti in Bot o in Borsa o in fondi comuni, il Tfr, la pensione già maturata, la polizza vita. A livello nazionale, il patrimonio accumulato dal paese – tutte le proprietà dello Stato, il capitale delle imprese, i portafogli di investimenti delle assicurazioni e delle banche – vale ben di più del flusso annuo che è misurato dal Pil, cioè il reddito prodotto in dodici mesi. Ecco perché bisogna prestare attenzione ai prezzi non solo dei beni di consumo, ma anche dei beni capitali. Se si abbassano sensibilmente i valori di questi patrimoni – case, titoli – noi diventiamo tutti più poveri. E ci comportiamo di conseguenza.
Una massiccia deflazione globale in atto da mesi sta svalutando tre categorie fondamentali di beni. In primo luogo le case, che in America hanno perso già il 20% del valore. In secondo luogo i titoli: solo a Wall Street le azioni dell’indice più rappresentativo (S&P 500) sono precipitate del 46% in un anno; un’altra erosione ha colpito anche titoli mobiliari che dovevano essere molto meno rischiosi, cioè le obbligazioni emesse dalle grandi imprese. Infine la tempesta della deflazione ha travolto tutte le materie prime: il petrolio vale la metà del suo prezzo di luglio e un tracollo analogo ha colpito metalli, minerali, derrate agricole.
La deflazione ha conseguenze perverse su due fronti, debiti e consumi. L’effetto sui debiti è micidiale. Lo sgonfiamento di valore di ogni bene patrimoniale – come si è visto negli ultimi mesi – destabilizza i debitori fino a spingerli verso l’insolvenza. Banche e hedge fund devono liquidare i loro portafogli, ma vendendo contribuiscono a far precipitare i valori di azioni e obbligazioni: il risultato finale è che i loro patrimoni valgono ancora meno, e il peso dei debiti alla fine si è accresciuto anziché diminuire. Di qui la corsa a chiedere la restituzione dei prestiti fatti alla clientela (imprese e famiglie), e la “glaciazione” dell’attività creditizia. Perfino le aziende più grandi e più solide oggi stentano a reperire fondi.
L’impatto della deflazione sui consumi è altrettanto pericoloso. Se ne ebbe una prova in Giappone, l’unico paese ad avere sperimentato la prolungata discesa dei prezzi durante gli anni Novanta (fu tuttavia un caso di deflazione non globale, pertanto assai meno preoccupante dell’attuale). Quando tutti i valori precipitano, il riflesso razionale è di rinviare ogni spesa: non comprare oggi ciò che costerà meno domani. Infatti in una vera deflazione l’unica cosa che acquista valore col passare del tempo è la liquidità, o quella semiliquidità che sono conti correnti, libretti di risparmio, Bot. Il meccanismo è già ben visibile negli Stati Uniti sul mercato immobiliare: per quanto i prezzi siano precipitati, la clientela si convince che potranno scendere ancora. Si notano i sintomi di sciopero degli acquisti: i giapponesi lo fecero negli anni Novanta; in America da alcuni mesi la proverbiale spensieratezza dei consumatori è svaporata. Ma quell’attendismo che appare una scelta razionale per il singolo, ha spaventosi effetti sull’economia e quindi sul benessere collettivo. Lo sciopero della spesa accumula giacenze invendute, le imprese devono tagliare la produzione e gli investimenti, infine licenziano (negli Stati Uniti sono stati persi 760.000 posti di lavoro dall’inizio dell’anno) oppure fanno ampio ricorso alla cassa integrazione (in Italia).
Le ripercussioni globali della deflazione sono violente. Tra le potenze emergenti quelle che si erano arricchite prevalentemente esportando materie prime – la Russia, il Golfo Persico, diversi paesi dell’America latina – entrano in una fase di serie difficoltà e turbolenze, con il rischio-bancarotta che incombe su diversi Stati sovrani. Le potenze asiatiche che sono invece delle economie di trasformazione – Cina, India – reggono meglio e tuttavia soffrono per il rattrappirsi dei mercati di sbocco. Fallimenti e licenziamenti di massa sono già in atto nel Guangdong, la regione più industrializzata della Cina. Molti produttori asiatici saranno costretti a ricorrere al dumping, vendendo sottocosto pur di smaltire le scorte. Così facendo accentueranno a loro volta la pressione deflazionistica mondiale.
La punizione più crudele che viene inflitta dalla deflazione è quella che colpisce i debitori. Quando tutti i prezzi scendono, i debiti in proporzione aumentano di valore perché sono fissi in termini nominali. Perciò questi sono tempi terribili per chiunque abbia debiti: famiglie, imprese, e anche Stati. Dall’Ungheria all’Argentina, dall’Ucraina al Pakistan, le bancarotte lambiscono interi Stati sovrani. L’Italia, avendo il debito pubblico più alto d’Europa, è in una posizione fragile nonostante l’ombrello protettivo dell’euro.
Le cure contro la deflazione sono lunghe e hanno efficacia limitata – lo dimostra la sindrome giapponese durata dieci anni. Ripetuti tagli dei tassi d’interesse, come quelli in atto in questi giorni, furono somministrati dalla Banca del Giappone senza risultato. Il costo del denaro può scendere a zero senza che questo sia sufficiente per invogliare imprese e consumatori a mettere in circolazione quel denaro, cioè a investire e a spendere. Essenziale è ricreare le condizioni di una crescita vigorosa che si misuri presto nel reddito di tutte le famiglie: è uno degli ingredienti del New Deal che l’America e il mondo si aspetteranno da una presidenza Obama.
Per come l’ho capita io, la deflazione funziona così: ci sono sempre meno soldi in giro, e quindi possono comprare sempre di più. Ma a questo punto non basta stampare soldi per fare in modo che ce ne siano?
Esempio di sinistra: stampiamo cento miliardi di euro e diamoli a tutti!
Esempio di destra: per quest’anno non chiediamo tasse a nessuno, e sostituiamole con soldi che ci stampiamo!
Insomma, la risposta standard a politiche di questo genere sarebbe “ma così generi inflazione”… Ora, sono sicuro che questa sia una belinata pazzesca, ma chi mi spiega dov’è l’errore?