L’Alitalia è quasi cotta. Se fallisse, c’e’ perfino il rischio che i lavoratori, avendo rifiutato una proposta di lavoro (quella CAI) non abbiano accesso agli ammortizzatori sociali. L’Enac ha dato l’ultimatum. Il primo ottobre rischiamo che la compagnia area sia a terra ma soprattutto che 20 mila lavoratori siano a casa senza stipendio e senza lavoro.
E’ iniziato a questo punto, il solito grottesco scaricabarile che, in epoca di informazione così sdraiata su posizioni filo governative e di caccia alle streghe giannantoniostellista, è diventato un tiro al bersaglio sui sindacati. In particolare sulla CIGL.
E’ quasi comico che, mentre tutti impallinano loro, nessuno ricordi all’attuale governo l’ostracismo, la virulenza nelle parole e l’attacco frontale portato alla trattativa del vecchio governo con Air France.
Il tutto buttato, nell’indifferenza generale, nel calderone della campagna elettorale. I politici seri, quelli che perdono poi le elezioni, hanno avviato una trattativa, senza poi cercare di prendersi un merito o derivarsene un vantaggio elettorale. I cialtroni, i venditori di fumo, hanno fatto saltare la vecchia trattativa, per scongiurare il pericolo che l’avversario politico si presentasse alle urne con una medaglia in più sul petto e promettendo il solito miracolo che, puntualmente, non c’e’ stato, e avvantaggiarsene elettoralmente, sulla pelle di quei lavoratori Alitalia che gli hanno creduto e, verosimilmente, lo hanno pure votato.
Ora, dopo aver fatto saltare il banco Air France, aver rinunciato alla possibilità di dar vita alla compagnia aerea più grande del mondo, i lavoratori sono stati messi di fronte al cappio di un contratto molto peggiore, di molti più esuberi, in una compagnia regionale, fusa con Airone (e che avrebbe scaricato sulla nostra schiena anche i loro debiti, di una azienda completamente privata) e con alla governance imprenditori senza alcuna esperienza di traffico aereo (settore nel quale, con margini minimali, è già dura restare a galla essendo dei giganti esperti, figurarsi essendo nani esordienti).
Il tutto modificando, per stretta necessità contingente, un discreto numero di leggi (una su tutte la Marzano) e violandone un’altra bella riga (vorrei vedere, una volta chiuso st’accordo, se i concorrenti di Alitalia e Airone avrebbero accettato senza fiatare un aiuto di Stato così vergognoso e palese).
Chissà quando gli italiani si sveglieranno dalla luna di miele per rendersi conto di avere nel letto il solito puttaniere?
E’ qualche giorno che mi chiedo cosa sia l’italianità. Quali ne siano i tratti distintivi, perché debba essere sbandierata, perché debba essere un vanto e, in particolare, perché debba esserlo per l’Alitalia (o quel che sarà). Esiste il “made in italy”, qualcosa di cui, effettivamente, ci potrebbe anche essere di andare orgogliosi: ciò che sappiamo fare bene, meglio degli altri e ci contraddistingue in tutto il mondo; lo esportiamo e vince. Il Made in Italy, in fondo, è un marchio, un qualcosa che si vende, una (supposta?) garanzia di qualità. Ma l’italianità? Cosa c’entra? Non dovrebbe essere un concetto legato alla cultura, alle tradizioni, alla storia…anche ad un sentimento patriottico?
Il made in Italy è un vanto, e può anche essere considerato un vantaggio competitivo sul mercato, ma è soprattutto una “conseguenza” di saper fare qualcosa bene.
L’italianità no. Non può esserlo. E’ un sentimento e coi sentimenti in un’economia globalizzata puoi farci un uso “Tenderly”. Allora perché difenderla a spada tratta in una situazione così delicata e drammatica come quella dell’Alitalia? Perché voler piantare a tutti i costi il tricolore diventa ancor più importante di dove lo si va a piantare e di come lo si pianta? Perché, per l’ennesima volta si vuole esaltare la formula non più vincente del microcapitalismo italiano del “piccolo è bello”?
In senso astratto una compagnia aerea efficiente, con aerei puntuali e puliti, personale competente, disponibile e produttivo, porta l’immagine dell’Italia in giro per il mondo. Ai tempi dei mondiali di calcio si disse che quella vittoria poteva valere un punto di PIL per il traino all’export e al Made in Italy. Una nazione che non si possa permettere una compagnia di bandiera produce l’immagine di una nazione in disarmo e in declino. Cosa che l’Italia, indubitabilmente, è già da inizio anni 90.
Giusto, ma prima devi averla una compagnia di bandiera efficiente, con aerei puntiali e puliti etc etc poi viene l’italianità. Se questa diventa il primo “obiettivo” a discapito dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità della nuova compagnia, altro che un punto percentuale del PIL…