Mio nonno era un uomo di altri tempi, una quercia. Non ricordo di averlo mai visto ammalato, salvo gli ultimi anni della sua lunga vita. Era nato il 3 ottobre del 1919. Aveva fatto la guerra. Già lavorava quando ci fu la grande crisi del ’29. Recentemente mi aveva detto che per lui non ci fu nessuna crisi. Erano contadini, vivevano di quello che dava loro la terra. Questo è proseguito anche dopo il collasso delle borse. Ho saputo che in un paesino dell’entroterra ligure che si chiama Pentema dove c’e’ un museo permanente della vita contadina antica, ci sono svariati suoi utensili (rigorosamente autoprodotti) che sono stati donati.
Era un uomo senza peli sulla lingua, con un carattere aspro, asciutto. Genovese fino al midollo. Mia zia mi raccontava davanti al suo feretro che negli ultimi giorni della sua vita, riuscendo a stento a raggiungere la cucina per consumare un frugale pasto, prima di tornare a letto spegneva la stufa a gas, che aveva paura che sua figlia si dimenticasse. Voleva risparmiare, pur sapendo benissimo che il suo futuro si contava per giorni.
Aveva inventato la raccolta differenziata ante litteram. Praticamente non si buttava via niente. Usava il tetrapack del latte come vaso per le sementi dell’anno successivo. Trasformava le stecche degli ombrelli rotti in punte per il trapano (a manovella). In un vecchio frigorifero nella sua vigna, riempito di terra, ho ritrovato le talee della vite che aveva seminato per me. Rovesciandolo e riempiendolo di terra. Nemmeno da dire che l’umido finiva nel letamaio a fare da compost.
Sapeva lavorare il ferro, il legno, il cuoio. Si fabbricava zappe, martelli, falci, mestoli.
Negli anni ’60 si era costruito mattone su mattone la casa dove viveva e dove vive mia zia. Negli anni 70-80 aveva contribuito al restauro della casa “di campagna” della nostra famiglia, in cui abbiamo trascorso la villeggiatura.
Usava nascondere nelle intercapedini dei muri delle bottiglie di vino, per poterle ritrovare anni dopo. Successe anche durante gli ultimi lavori in casa. La prossima volta che succederà sono certo che mi procurerà un tuffo al cuore.
Era, come tutti gli uomini dei nostri monti, un cacciatore e un fungaiolo provetto. La buonanima di mia nonna per farlo desistere in età avanzata dall’andare da solo nel bosco arrivò a buttare nella spazzatura un cesto pieno di funghi. Gli disse in dialetto: “io funghi non ne cucino più”. Per loro buttare via del cibo commestibile era più o meno come bestemmiare per un prete. Amava il cibo povero, frugale. Mangiava pochissimo, eppure aveva l’energia e la forza di due uomini. Quando aveva 70 anni e io ne avevo 20 se avessimo fatto a cazzotti mi avrebbe raso al suolo come un giunco.
Mi diceva che restare magri è il segreto della longevità. Che quelli grassi fanno affaticare il cuore e il corpo per portarsi appresso peso superfluo. Pur essendo stato un grande bevitore del vino che produceva e per molti anni in gioventù un fumatore incallito (ecco, forse questi sono gli unici denari che abbia davvero mai speso a vanvera) è arrivato lucido e in buona salute fino alla soglia dei 90, salvo poi gli ultimi anni di lieve declino.
Sabato notte, alle 3, si è spento. Prima di morire ha chiesto all’infermiera che lo accudiva una sigaretta, l’ultima. Dopo tanti anni che aveva smesso. In qualche modo ha sentito che stava arrivando il tristo mietitore a chiedere il suo tributo.
Ha vissuto una vita lunga, ritengo abbastanza felice. Ha fatto una guerra da soldato prima e da partigiano poi, dopo la diserzione. Ma non ne voleva parlare. Aver ammazzato delle persone era un ricordo che non voleva avere. Ha perso un nipote, per una grave malattia. Per il resto credo che la gioia della semina e del raccolto, dei suoi alberi innestati e del fieno per i suoi animali siano stati quel che si può definire una vita felice e appagante.
Adesso sarà compito mio, che sono la memoria dei suoi giorni che si estinguono, del suo sapere che si annacqua nei miei ricordi, cercare di dare ai miei figli ed ai miei nipoti un po’ di quello che lui ha dato a me. Un proverbio africano dice che noi siamo il motivo per cui sono vissuti i nostri antenati. E loro vivono nella nostra memoria, nei nostri geni, nelle nostre abitudini quotidiane. Qualcosa di tutto questo è rimasto nella mia pelle e il mio compito è quello di disperderne il meno possibile.
Fra qualche anno, quando i miei figli avranno l’età per capire, andremo al museo di Pentema e potrò dir loro che un pezzo di quella storia è la storia della nostra famiglia. Che un po’ di quella terra è ancora sotto le nostre unghie.
Ieri passeggiare per quella vigna mi ha fatto venire un groppo nella gola. Mi mancherà quel burbero vecchio contadino tenace e instancabile. Anche d’inverno colore del cuoio, in maniche corte, a zappare la terra.
QUello che mi resta da fare è vivere rettamente ed educare alla morigeratezza e alla rettitudine i miei figli per onorarne la memoria.
Ciao nonno, e grazie.
Porca miseria, Layos, mi hai commosso!
Saluti,
Mauro.
Che bel post. Grazie Layos.